di Nicola Cristaldi
Sono fatti di pietra, di gesso e di cemento i sogni di questa città, Mazara del Vallo, dal mare e protetta dai millenni della storia. Qui il tempo trasuda dalle mani di chi ha costruito ogni edificio, visibili solo da chi sa osservare il dondolio degli attimi che si incrociano tra gli squarci di un cielo che si ripete, inesorabilmente, tra i gabbiani, mentre infilzano lo scirocco costruttore degli uomini di mare. Qui tutto è sogno e realtà ed è difficile, se non impossibile, stabilirne i confini.
Possono le pietre parlare? Possono i personaggi del mito diventare immagini del presente e scultori del futuro?
In questa terra dove passato e futuro sono bloccati dal presente, il mistero trafigge ogni sfera delle piccole e grandi cose. Questa città vive come vivono i vulcani sempre attivi. Dormono e dominano le valli e ogni tanto uno scossone sveglia la sua gente e inorgoglisce il modo di vivere e di respirare il proprio spazio.
Il limite tra il vociare delle strade e il silenzio assoluto qui si concretizza in ogni attimo. Solo chi ama questa città la ama veramente in ogni sua faccia, in ogni sua contraddizione, nel suo vociare e nel suo silenzio.
“Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice”, scriveva Pablo Neruda, non sapendo che a migliaia di chilometri dalla sua terra, quella frase si sarebbe sposata con questo luogo dove tutto si risolve o si complica intorno ad una tavola.
Qui dove tutto è difficile, si aprono finestre senza orizzonti; chi sa guardare lontano vede isole e terre oltre l’orizzonte negando la fata morgana. Le terre che vedi dalla costa sono reali e non svaniscono dopo il fenomeno fisico, non sono un inganno che conduce alla morte. Questa terra vive tra il vero e l’immaginazione, tra il sogno e la realtà, minacciata costantemente dal mito del nord degli anni ’60 o dal fascino americano del primo Novecento.
Qui l’infinito del mare ti cattura e ti fa volare oltre ogni confine ma anche ti riduce a microscopica dimensione quando il pianto delle madri accoglie i loro figli andati per mare cantando e tornando distesi su una tavola di legno, senza vita e senza più sogni, senza vociare e senza silenzio. Il nulla si impossessa di questa città quando vene falciata dalla notizia che uno dei suoi figli si è perso nella profondità del mare.
Qui la gente si chiede perché nei secoli siano state edificate città lontane dal mare. Come si può vivere senza il mare? Qui il mare è fratello e vendicatore, mai paesaggio. Ogni Mazarese, tornando qui, dopo un breve o lungo viaggio, prima di raggiungere la propria casa vuole vedere il suo mare, respirarne l’odore, sentirne la voce e, dopo, soltanto dopo raggiunge i propri cari e varca la soglia della propria casa. A volte capita che si rientri a casa senza aver visto il mare, senza averlo salutato, ma al mattino si corre sulla costa per il gesto del mito e del rispetto.
Qui l’abitudine fa parte della monumentalità della città, ti abitui al mare e alla cattedrale, al vuoto della piazza e ai bambini vocianti, al bottegaio e ai grandi magazzini, a chi ha lavorato per una vita e a chi non lo ha mai fatto ma conosce luoghi affascinanti e tavole imbandite dai re.
Nulla stupisce chi dà del tu al Marrobbio che con la sua forza e la sua potenza solleva le tonnellate delle imbarcazioni e le adagia sulle banchine. Nessuno dice che il Marrobbio è un fenomeno legato all’alta marea, sapendo che invece è l’anima di chi si ribella all’incuria degli uomini, all’abbandono della corrente che incontra sempre più ostacoli depositati dalla natura e dallo stesso uomo. Cantano i marinai il dolore di chi se ne va e non torna più, benedicendo chi ha la forza di misurare la frequenza delle onde.
Come può questa città stupirsi di qualcosa quando è abituata a vedere Ruggero primo il gran conte scendere dal frontone della cattedrale e percorrere le vie della città, salutando i viandanti senza che la sua armatura emetta alcun suono metallico e provocando il fruscio delle foglie della villa Jolanda contornate dalle grida di migliaia di uccelli?
Questa città piena di Santi protettori sa che qualcuno l’aiuterà nel momento dello sconforto e l’affidarsi al domani non è mai rassegnazione ma consapevolezza che prima o poi le cose si aggiustano da sole.
Si incrociano gli stili e le architetture delle chiese, numerose e aristocratiche, dove il gesso copre quelle mani che hanno scolpito santi, angeli, diavoli e serpenti. Le chiese hanno scritto il tracciato della città, dando un senso a ogni vicolo e a ogni piazza. Molti i campanili che non ci sono più e molte le campane che non suonano più. Tra gli archi, le cupole, le colonne si conservano i simboli della storia e troneggiano quelli della leggenda. Qui, il canto del muezzin carezza le pietre cristiane, dando origine e concretezza alla cultura del rispetto. Varca ogni soglia chi permette anche agli altri di farlo, in una terra nella quale è difficile segnare la data di nascita della propria gente. Qui si nasce e si muore come in ogni altra parte del mondo, ma la leggenda sommerge la storia pur carica di pagine e stimola la fantasia delle nuove generazioni che lasciano questa terra per la sola ragione di volerci tornare. Tutti sanno che Sataliviti fu un bandito che rubava ai ricchi per aiutare i poveri e se la storia dice il contrario, è un problema della storia. Tutti sanno che San Vito il martedì sera attraversa i vicoli della città antica su un cavallo bianco e se qualcuno non crede perché non vede, vuol dire che il suo sguardo non è abbastanza profondo.
Qui non esiste una vera scala dei valori, ognuno la disegna a modo proprio e a sostegno della propria ragione. Ci si inginocchia davanti al quadro della Madonna del Paradiso e ci si commuove nel ricordo di Tommaso, al cui funerale partecipò l’intera città. Poco importa se Tommaso non era Ettore Maiorana, per Mazara era molto di più perché scriveva un libro affascinante carico di mistero e quando qualcuno tentò di mettere i piedi per terra, questi fu cancellato dalla memoria degli uomini. Si cancellano quelli che vogliono eliminare i passi del sogno e del mito.
I volti e il colore della gente si incrociano come i colori nell’action painting, le diverse lingue si rincorrono velocemente, calmierate dalla lingua siciliana che solo i cattivi del Nord vogliono ridurre a dialetto.
In questa terra, come in poche altre, restano in piedi solo le pietre che sanno sposarsi con la poesia, quella cantata dai marinai e dai contadini. La poesia come creazione per disegnare il futuro prossimo o quello delle generazioni da venire.
Questa città è stata costruita dalla contraddizione. Ogni secolo ha distrutto il precedente, salvandosi ciò che è riuscito a nascondersi. Lo spirito della contraddizione aggredisce le generazioni che a furia di distruggere il precedente finiscono con il disegnare l’altalena del tempo e della storia.
La città di oggi è la risultante delle diverse civiltà che si sono succedute e la sua gente ha assunto le sembianze dei Normanni con la testa di Arabi. Qui i normanni hanno integrato la loro architettura gotica con l’ingegneria araba, dando origine allo stile arabo-normanno ma, come si sa, le pietre sono scolpite dagli uomini assistiti dall’ambizione di dover stupire a tutti i costi.
Ci sarà pure una ragione se Giovanni Franco, maestro della fotografia e della parola, ha scelto questa città per immortalare il cielo e la sua luce, il mare e la sua gente, la casbah e i suoi colori. Ci sarà una ragione.
Nota del redattore.
Quello che avete letto fa parte del libro “Mazara del Vallo, Oltre la rete”, di Giovanni Franco e Nicola Cristaldi.
Edizioni Libridine, 2022
Prefazione di Milena Romeo
La copertina è stata disegnata da Franco Donarelli
Il volume contiene anche un’analisi di Gianluca Serra.