“Quel che rimane” di Andrea Castellano

Ho ascoltato e letto una buona parte dei servizi giornalistici dedicati all’inchiesta antimafia, e ai relativi arresti, dei giorni scorsi. Mi sono spinto, con sprezzo del pericolo, a seguire anche la trasmissione sull’argomento mandata in onda giovedì sera a Telesud (la prima parte, essendo la seconda al di là delle mie ormai scarse forze). Mentre mi rigiravo nel letto in attesa del sonno, mi è venuta in mente la poesia di Remo Remotti, “Me ne vado da Roma”, splendida invettiva contro la capitale (la si trova facilmente su YouTube). Remotti è stato un poeta, un intellettuale di strada, apparso in film di Moretti e Verdone.

Che c’entra? C’entra, perché l’invettiva contro la mia città mi pare l’unica reazione ragionevole ad una storiaccia di mafia, o mezza mafia, contornata da politici, o mezzi politici. Una vicenda di uno squallore assoluto: da giornalista non mi sono mai occupato di cronaca nera o di mafia, non ho fonti riservate cui attingere, non ho notizie esclusive, non ho neanche il fiuto che certi colleghi pretendono di possedere. Però la memoria ancora mi sostiene, e non ricordo una città così miserabile come si è ridotta negli ultimi quindici anni, direi. Ci salveremmo se fosse una città proletaria, perché scava e scava troveremmo in fondo all’anima una coscienza di classe che ogni tanto, magari una volta ogni cent’anni, fa rialzare la testa. Invece Trapani è una città plebea, e i plebei sono servi per definizione, e dalla loro condizione non possono e non vogliono schiodarsi. E i plebei producono una classe dirigente così: accattoni che sgomitano e scodinzolano attorno ai malacarne per accaparrarsene benevolenza e voti. Saranno i magistrati a stabilire se questi comportamenti costituiscono reato, ma reato sì o reato no, poco importa. Quella indegna caccia al voto c’è stata, e il marchio d’infamia resta.

Trapani è questa: tutti monarchici, poi tutti fascisti, poi tutti democristiani, poi tutti berlusconiani. A livello locale, tutti entusiasticamente faziani, poi tutti plebiscitariamente tranchidiani. Sempre tutti da una parte: come le pecore.

Io me li ricordo gli anni ’80: ero giovane e inesperto, ma attento. Mi ricordo la sequela degli omicidi di mafia: il povero Ciaccio Montalto lasciato solo, l’odiosa strage di Pizzolungo, poi Giacomelli, quindi Rostagno. Vivevamo fra i morti ammazzati, fra “la mafia non esiste, storia di corna fu” e lo sfottimento delle vignette di Forattini. C’era la morte attorno a noi, ma la città era viva. Gli ultimi echi delle lotte degli anni ’70 facevano sì che ci fossero giovani coraggiosi ed entusiasti che avevano voglia d’incontrarsi, che facevano giornali, c’erano settimanali e televisioni, e tante radio che parlavano alla gente. C’era un consiglio comunale in cui potevi ascoltare discorsi seri, pronunciati magari da un odiato avversario politico, ma seri. E c’era un’opposizione, in consiglio e nelle strade. Oggi l’unica cosa che del consiglio si ricorda è la sparata di quel tale che, in un italiano zoppicante, ha chiesto alla sua donna di sposarlo. Aberrante già solo l’idea, figuriamoci la messa in pratica.

Anche i sistemi criminali evolvono, si modificano. Negli anni ’80 avevamo quei mafiosi lì, gli stragisti. Oggi abbiamo questi: come nei film western, quando fanno vedere gli indiani che attaccano le mandrie di bisonti. Ne ammazzano più che possono, poi prendono le pelli che serviranno a farne coperte, la carne da essiccare e conservare per l’inverno. Quando hanno finito, quel poco che resta va agli sciacalli e ai rapaci. Quel poco che resta è Trapani: incolta, qualunquista, stracciona ma ben vestita, non se la fila neanche la mafia, che lascia i resti a ordinari malacarne.

MI ricordo lo scodinzolìo dietro i politici in auge al tempo in cui organizzarono la Louis Vuitton Cup (“american cap”, per il trapanese medio). Altro non era che la prova generale per “Protezione Civile SpA”, ovvero uno dei più grandi affari, poi fortunatamente abortito, della storia della Repubblica: qui diventò un “evento” epocale, “la città della vela” e cazzate di questo calibro. Tutti ad aprire ristoranti, “pabbe” e “brekkenfast”, senza avere la minima cognizione di cosa significhi fare turismo. Un delirio collettivo, con due poveracci insigniti della cittadinanza onoraria, quella negata al prefetto Sodano, solo perché in tv squittivano “Trapani Honoluluuu”. Guai a farlo notare, allora: trapanesi ancora una volta tutti dalla stessa parte.
Di fronte a questo nulla, si sta a discettare su un’operazione di polizia, sulla sua ampiezza, su chi comanda e chi obbedisce: guardiamo gli effetti e non le cause, e i giornalisti, se non ricordo male, dovrebbero concentrarsi di più sulle seconde.

(Quando frequentavo la redazione del giornale, ogni tanto mi piaceva eclissarmi per qualche giorno (al tempo, senza cellulari, era piuttosto semplice). Quando riapparivo, immancabilmente Enzo mi diceva: “Scambi il giornale per una puttana, ti viene voglia e ti rifai vivo”. Per ardita similitudine, mi vengono in mente i giovani trapanesi: dopo il diploma, chi può scappa a gambe levate. Vai a dargli torto. Tre volte l’anno gli viene voglia e vanno a puttane: per i Misteri, ad agosto e a Natale. Trovano la puttana piuttosto invecchiata, magari quando sorride affiora una bellezza appassita. Poi gettano un paio di banconote sul letto e vanno via, a inseguire e a sbranarsi la vita. Altrove, lontano da qui.)

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