sabato, Dicembre 9, 2023

Perché quello che avete fatto finora non è smart working

AVVISO: il blog vuole cercare di raggiungere una platea di utenti che normalmente non mastica il diritto del lavoro, e pertanto è volutamente sintetico e cerca di usare una comunicazione semplice. Un occhio tecnico potrebbe trovare alcune imperfezioni, che sono però un costo necessario da sostenere per poter raggiungere una platea più ampia.

Sono tantissimi i lavoratori che in piena pandemia hanno sperimentato per la prima volta lo smart working: in totale 4 milioni e mezzo gli italiani impegnati nel lavoro agile, circa il 25% di tutta la forza lavoro nazionale, di cui la metà dipendenti pubblici.

Complice una narrativa forzatamente progressista, lo smart working, o lavoro agile, svolto in pandemia è finito con l’aderire totalmente a un’altra modalità lavorativa: l’home working o telelavoro. Le due fattispecie sono estremamente diverse, e in comune hanno solo la delocalizzazione del luogo di lavoro.

In particolare nel telelavoro la prestazione lavorativa non viene resa in azienda ma in ambienti che rientrano nella disponibilità del lavoratore, come appunto la propria casa. In questo caso tutti i supporti tecnologici e tutti gli strumenti necessari al regolare svolgimento dell’attività lavorativa vengono forniti, installati e manutenuti dal datore di lavoro che ne è diretto responsabile. Le spese, in particolare quelle inerenti alla comunicazione, sono a carico del datore di lavoro. Il datore di lavoro è anche responsabile della salute e della sicurezza sul lavoro del telelavoratore e quindi, per poter verificare la corretta applicazione delle disposizioni normative, dovrà accedere al luogo dove il telelavoro è svolto, compresa la casa del lavoratore se la prestazione è tenuta li.

In sostanza cambia solo il luogo della prestazione lavorativa, che continua a essere valutata in termini quantitativi.

Il lavoro agile invece prevede una valutazione del lavoro in termini qualitativi superando l’attuale concezione del lavoro subordinato. In pratica lo smart working consiste nell’organizzare il lavoro per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo. La valutazione quindi non si fa più solamente sulle ore prestate ma anche sul raggiungimento degli obiettivi contenuti nell’accordo di lavoro agile, chiaramente sempre nel rispetto della legge e della contrattazione collettiva.

Lavorare esclusivamente da casa quindi non ha niente a che fare con lo smart working; questa modalità va incastrata in un più ampio ripensamento dell’organizzazione aziendale, dove le prestazioni lavorative possono essere orientate all’accrescimento della produttività del lavoratore, con modalità e strumenti gestionali ben diversi da quelli usati durante l’emergenza pandemica.

Gran parte delle imprese che si sono trovate da un giorno all’altro a dover attuare il lavoro agile hanno bypassato tutti quei percorsi di progettazione, sperimentazione, formazione e monitoraggio, che caratterizzano generalmente le fasi di avvio dello smart working. Senza considerare poi che il lavoro agile comporta un seppur minimo investimento in termini d’infrastrutture tecnologiche (dalla sicurezza delle reti alla disponibilità di pc e altri device per far lavorare i dipendenti da casa); anche in questo caso la velocità imposta ai tempi emergenziali ha portato a soluzioni spesso improvvisate, come smontare e portarsi a casa il computer dell’ufficio.

La pandemia ha trovato quindi in gran parte un settore imprenditoriale impreparato rispetto al lavoro agile, con il merito d’introdurre un’innovazione nei modelli di lavoro, di cui il Paese ha bisogno. Le criticità da superare restano tuttavia ardue: in primis una certa, immotivata e arcaica ritrosia di alcuni datori di lavoro rispetto all’applicazione dello smart working, attraverso cui verrebbe meno il controllo sul lavoratore: una tesi incredibilmente diffusa, anche in ambiti imprenditoriali all’apparenza all’avanguardia; in secundis il basso livello di digitalizzazione del Paese che sia con riferimento al livello di alfabetizzazione digitale d’imprenditori e lavoratori, sia con riferimento alle carenze delle infrastrutture tecnologiche del Paese.

Insomma al momento siamo di fronte a una modalità di lavoro poco “smart” ma che rappresenta uno dei punti di svolta per resistere alla crisi economica che seguirà all’emergenza pandemica.

“Il lavoro, spiegato bene” è il blog di Sergio Villabuona, consulente del lavoro ed euro-progettista. È possibile interagire con lui attraverso la sua pagina Facebook.

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