Mafia, condannato l’ex senatore Antonio D’Alì

Sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa

L’ex senatore trapanese Antonio D’Alì è stato condannato a 6 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

La sentenza è stata emessa oggi dai giudici della Corte d’Appello di Palermo al termine di un lungo iter processuale iniziato nel 2011. “E’ stato il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”, aveva detto la procuratrice generale Rita Fulantelli nella sua requisitoria, di due ore, al termine della quale aveva chiesto la condanna a 7 anni e 4 mesi mentre la difesa aveva invocato l’assoluzione.

I giudici d’Appello hanno anche disposto la sua interdizione legale durante la pena, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità a contrattare con la Pubblica Amministrazione per tre anni.
D’Alì è stato anche condannato al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni alle parti civili, tra cui ci sono Libera e il Centro studi “Pio La Torre” di Palermo e le associazioni anti racket e anti usura di Alcamo e di Castellammare del Golfo, rinviando le parti dinnanzi al giudice civile per la liquidazione.

Il provvedimento è stato letto dal presidente del collegio, Antonio Napoli, al termine di una breve camera di consiglio. Le motivazioni saranno depositate entro il termine di 90 giorni. La Corte ha anche trasmesso alla Procura di Palermo, per le valutazioni del caso ai sensi dell’articolo 207 del Codice di procedura penale, gli atti relativi alle deposizioni di sette testimoni, tra cui ci sono l’ex presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro, l’ex ministro Giuseppe Pisanu, e il prefetto Carlo Mosca, capo di gabinetto di Pisanu.

Secondo le tesi della Procura, Antonio D’Alì, oggi 70enne, nel corso della sua attività politica ha “mostrato di essere a disposizione dell’associazione mafiosa Cosa nostra e di agire nell’interesse dei capi storici come il latitante Matteo Messina Denaro e Salvatore Riina” e  “con il suo operato ha consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra – ha detto la pg durante il suo intervento – mettendo a disposizione le proprie risorse economiche e successivamente il proprio ruolo istituzionale di Senatore della Repubblica e di Sottosegretario di Stato”.

Quello appena concluso è il processo d’Appello bis al politico trapanese dopo l’annullamento, da parte della Corte di Cassazione, del precedente giudizio di assoluzione e prescrizione per i fatti precedenti al 1994.
Sono stati ascoltati una ventina di testimoni, alcuni mai sentiti prima, nel tentativo di colmare le “cadute logiche” riscontrate dalla Cassazione nel giudizio di Appello emesso nel 2016.

Tra le “lacune” c’era soprattutto la “cesura illogica della suddivisione netta in due periodi”, pre e post 1994, che – sia in primo grado sia in Appello – era stata fissata con la data dell’ultimo assegno consegnato da D’Alì a Francesco Geraci, amico del boss latitante di Castelvetrano, per una compravendita fittizia di un terreno in contrada Zangara, la stessa in cui lavorava don Ciccio. Un episodio accertato da tutte le sentenze finora emesse, anche se coperto da prescrizione, che data all’indomani delle stragi del 1992 il legame tra D’Alì e Matteo Messina Denaro.

Di recente la Cassazione aveva confermato la revoca della misura di prevenzione dell’obbligo di dimora a Trapani a cui D’Alì era stato sottoposto per la sua presunta “pericolosità sociale”.
La sua legale, l’avvocata Arianna Rallo, si è detta stupita della sentenza di condanna e ha dichiarato che dopo il deposito delle motivazioni, previsto entro 90 giorni da oggi, si valuterà un eventuale ricorso in Cassazione.

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