“Il mio Rostagno” di Andrea Castellano

“You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one. I hope someday you’ll join us, and the world will be as one”

Imagine, John Lennon, 1971

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Arrivavo nel primo pomeriggio. La strada per Napola, poi a sinistra per Lenzi, quindi la stradina a destra. Varcavo la soglia di Saman  con una sorta di apprensione, come sempre mi capita quando giungo in un posto nuovo, dove non conosco nessuno e nessuno mi conosce. Sotto al braccio un fascicolo alto così, le bozze della rivista di basket che al tempo pubblicavamo. A Saman, fra le altre cose, si occupavano anche di fotocomposizione, e non so come quel lavoro lo facevamo lì, alla “Cukku”. Io mi guardavo attorno e lo cercavo, cercavo Rostagno, mi sarebbe piaciuto incontrarlo. So perfettamente che, se pure lo avessi incrociato, non avrei mai avuto il coraggio di fermarlo e presentarmi. Ma tanto non lo vidi mai. Poi lo hanno ammazzato, ed è morto senza che lo conoscessi. Da allora, il mese di settembre, per me è il mese di Mauro.

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L’altra sera Rai 3 ha trasmesso “Santiago, Italia”, bellissimo e commovente docu-film di Nanni Moretti sul golpe cileno e sugli esuli salvati dall’ambasciata italiana a Santiago, poi accolti in Italia. Molti sono rimasti, e grati, raccontano di considerarsi figli di due paesi. In tutti i racconti, emerge la figura gigantesca di Salvador Allende. Mi è venuto in mente Mauro: per Trapani è stato una specie di Allende, il capo di una piccola rivoluzione locale che pian piano, dolcemente, si stava facendo strada. Non rendendosi necessario organizzare un golpe, per fermare quel germoglio di democrazia e condivisione, fu sufficiente sparargli.

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Nel ventennale del ’68, L’Espresso allegò al settimanale un paio di dischi, i vecchi 45 giri. “Le voci del ‘68”, credo si intitolassero. Registrazioni di assemblee nelle università, stralci di telegiornali. Fra le voci dei leader del tempo, si poteva ascoltare quella giovanissima di Mauro, a Trento. Inconfondibile. Avevo cercato fra i libri (non c’era internet) la sua biografia, che mi apparve straordinaria. A Trapani inseguiva la rivoluzione con altri mezzi: intanto salvare la gente dalla droga, una generazione intera quasi costretta a scegliere fra lotta armata o eroina. Poi c’era la mafia, che aveva già conosciuto ai primi dei ’70, quando Lotta Continua l’aveva spedito a Palermo. Raccontano che aveva incaricato un gruppo di compagni di preparare un’inchiesta sul potere politico-mafioso siciliano. Quando, non senza fatica, gli portarono gli esiti del lavoro, s’accorsero che in un paio di cartelline lui aveva già condensato tutto. Il fenomeno, insomma, gli era già chiaro: approdato a Trapani, era stato sufficiente aggiornarlo alla fine degli anni ’80.

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Quando cominciò a lavorare a Rtc, quando organizzò la redazione, ma soprattutto quando iniziò a condurre il telegiornale, il tentativo di piccola rivoluzione locale fu chiarissimo. Rifletteteci un po’: trent’anni fa non esisteva quello che fa oggi Mentana, ovvero condurre e commentare insieme, esprimendo ogni giorno in diretta una linea politica ed editoriale. Chi conduceva annunciava il servizio, basta così. Lui cominciò a farlo a Rtc, in una piccola tv e in una remota città siciliana. E lo faceva con la sua enorme presenza scenica: vestito di bianco, la barba a far da contrasto, il sorriso aperto, l’andare a braccio spiegando in parole semplici. Se distratto passavi davanti alla tv ed ascoltavi quella voce, tornavi indietro pensando “ma chi cazzo è questo”. E infatti i giornalisti di qui non lo sopportavano: non è un giornalista, non ha il tesserino dell’ordine. Ma per fare le rivoluzioni, anche quelle piccole piccole, i tesserini non servono.

E’ vero, non diceva cose eclatanti, però spiegare all’ora di pranzo, ad un pubblico che in gran parte non sapeva nemmeno cosa fosse un quotidiano, che dall’omicidio Lipari emergeva la saldatura fra la mafia palermitana e quella catanese, oppure mandare in onda i servizi sul processo al boss Agate, rappresentavano lezioni, bignami, ragazzi forza cominciamo dalle basi, cinque minuti d’attenzione e poi attaccate gli spaghetti. Funzionava, accidenti se funzionava.

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Infatti dopo un po’ gli spararono. Gli spirava attorno un venticello di quelli sgradevoli, quelli che non c’è giaccone che possa proteggerti: un paio di leader politici dell’epoca, l’opacità della Saman del guru de noantri, in ultimo il caso Calabresi, il tutto immerso nella palude trapanese. E poi, naturalmente, la mafia, il braccio armato nella palude. Perché quella fretta? Non lo sapremo mai, i depistaggi sono proprio la riprova che non lo sapremo mai. Hanno sparato ad un rivoluzionario, a un comunista, un sovversivo: negli ambienti reazionari, quando capita una cosa così, si brinda. E si depista. Se poi arrivano anche gli ordini dall’alto, si depista con più entusiasmo.

Quella sera ero davanti alla tv, a cena. Finisco per un attimo su Rtc e passa il serpentone sotto: attentato al nostro direttore. Mollo tutto e salto in auto, rifaccio la strada per la Cukku, solo che stavolta è buio. Parcheggio lungo strada di Lenzi e mi incammino a piedi. Arrivo lì, a due passi dalla Duna. Stanno facendo i rilievi, c’è un po’ di gente ma non ricordo nessun volto. Gli hanno sparato, è morto, è all’obitorio. Ci vado, ma è un viaggio inutile.  

Avvilito, me ne torno a casa: il cerchio si è chiuso, da Ciaccio Montalto a Rostagno. L’ordine è stato ristabilito: concluso il riflusso degli anni ’80, il mare è di nuovo calmo, il berlusconismo alle porte. Andate in pace.

***

Avevamo cominciato a raccogliere le firme per sfida, per gioco, non saprei. Giorgio s’era attaccato ad una frase di Linares, partimmo. La gente si fermava e firmava: Rostagno, sì, quel tale con la barba, me ne hanno parlato i miei genitori. Tanti dicevano d’averlo conosciuto. Mi sa che l’unico ad averlo mancato ero io. Riaprire le indagini? Buona idea. Si fermavano, ascoltavano e firmavano. Arrivavano firme anche on line, firme pesanti. Il convegno all’università con Rita, gli occhi luminosi di Rita, e i ragionamenti profondi della Bartholini. E quella sala piena zeppa.

Nel 2008, ventennale dell’omicidio, facemmo le cose in grande, alla villa Margherita. C’era Lirio Abbate, c’era Ingroia prima del suo inatteso declino, c’era Gad Lerner, c’erano i compagni di Lotta Continua che avevano conosciuto Mauro a Palermo o, prima, a Milano. E c’era Trapani, in uno di quei radi sussulti di vitalità che ogni tanto l’innervano, tanto da farti sperare – ma l’illusione dura solo qualche minuto – che sì, forse qualcosa può cambiare.

E’ stato il mio piccolo tributo al compagno che non ho conosciuto: avessi avuto un figlio maschio, gli avrei dato il suo nome. La femmina che è nata, porta invece quello di battaglia di una coraggiosa partigiana romana. Va bene anche così.

(Studiavamo, o tentavamo di farlo. Incombeva l’esame di Filosofia del diritto, per me l’ultimo prima della tesi. Pluri fuori corso, dovevo sbrigarmi. Ma io e Ricky leggevamo senza capire un cazzo. Così, saltammo in macchina e andammo a Saman, Mauro lo avevano portato lì. Ancora quella strada per Napola. C’era il sole, faceva caldo. All’ingresso ci fermarono per lasciar passare Orlando, lui e l’impressionante scorta armata coi pistoloni. Alla fine entrammo: era nella bara, attorno tutti vestiti di bianco, musica orientale in sottofondo. Si respirava serenità, buone vibrazioni, noi eravamo disperati e tutti sorridevano. Sorridevano perché inconsapevoli, poveri ragazzi, di cos’era accaduto. Di cos’era accaduto a noi e, l’avrebbero capito in seguito, anche a loro.

Ce ne andammo in silenzio e con un groppo in gola. Si stava ripresentando la mia rinite, troppo polline, anche se era già settembre.)   

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