“Gli autobus di Carlo Lungaro”

Una nuova storia raccontata da Andrea Castellano nel suo blog

Con quella stazza e quella voce tonante, no, di certo non passava inosservato, Carlo Lungaro. La presenza scenica, insomma, era imponente, ma c’era anche dell’altro. C’era, per esempio, che quando aveva due anni, la Storia, quella con la “s” maiuscola, era entrata potentemente nella sua vita e in quella della sua famiglia.

Gli era capitato, nella Roma occupata dai nazisti, un padre poliziotto dal nome d’altri tempi, Pietro Ermelindo, che non aveva voluto saperne di farsi i fatti propri, come tutti gli consigliavano. Aderendo alla Resistenza, coi gruppi di Giustizia e Libertà, aveva preso rischi seri, finendo a via Tasso a febbraio e quindi alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.

Con una storia così, insomma, si cresce con le spalle forti, non solo in senso fisico. La famiglia Lungaro, rientrata a Trapani e guidata da una madre coraggiosa, non s’abbatté, tutt’altro: il fratello maggiore, Alberto, diventò medico, Carlo si laureò a Palermo in Economia, Pietro, nato pochi mesi dopo la morte del padre, entrò in Banca d’Italia.

Carlo diventò funzionario e poi dirigente dell’Eni, ma approdato dall’altra parte della Sicilia, a Priolo, si ricordò del suo passato nella pallacanestro: giovane, aveva giocato nella gloriosa Rosmini dei miracoli degli anni Sessanta, coi fratelli Vento, Crimi, Castelli e la banda che toccò per un anno la serie A.

La Rosmini di inizio anni ’60 con Carlo Lungaro

L’amore per lo sport era rimasto, e con le spalle forgiate nella Roma messa a ferro e fuoco del ’44, ecco un’altra impresa: da presidente della società di basket femminile, costruzione di un palasport privato, scudetto nel 1989 e poi Coppa dei Campioni nel ’90. Avete letto bene: Coppa dei Campioni. A Priolo.

Aveva avuto pure degli incarichi tecnici al fianco del sindaco Bianco a Catania, occupandosi di trasporti pubblici.

Una volta in pensione, trovato il tempo per riannodare i fili della sua vita, gli erano tornati in mente, potenti, Roma e la storia del padre partigiano, dimenticato nella sua città d’origine. Nacque così un libro, portato in giro per l’Italia: alla scuola di polizia a Roma (dove la figlia del colonnello Montezemolo, anche lui ucciso alle Ardeatine, osservava con un pizzico di stupore e disappunto come a ricordare quel partigiano sconosciuto ci fosse un sacco di gente), a Genova, nella famigerata Bolzaneto del G8, a Palermo, nella caserma proprio a Lungaro intitolata, a San Donato Milanese, il luogo in cui Carlo si era trasferito, con un inatteso e commovente saluto d’un sindaco leghista. E tutto grazie all’opera di Carlo, che col suo vocione riusciva ad instillare allegria pur raccontando fatti tragici.

Carlo Lungaro è morto pochi giorni fa, dopo mesi di malattia. Sarà un’assenza pesante, non ci sono sostituti paragonabili: la sua capacità di raccontare dovremo dividercela un po’ per uno. Ma per pareggiare dovremo essere tanti.

(Nella sua vita straordinaria, Carlo Lungaro si era occupato, come detto, di trasporti pubblici. Una volta mi raccontò che a Catania dovevano sostituire un certo numero di autobus, lui s’accorse che quelli vecchi non erano poi da buttar via, e così li regalò “lo sai a chi, Castellano? Al compagno Fidel, gli autobus di Catania circolano a L’Avana”, la frase seguita da una fragorosa risata che mi spostò di metri. Una leggenda? Non direi, Carlo Lungaro era capace di questo e altro).

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