“Enzo” di Andrea Castellano

Conoscerlo, lo conoscevo. Del resto lo conoscevano tutti. Altro era andarci a parlare, per un diciottenne con un accenno di barba, al mattino ancora fra i banchi di scuola. Così, per farmi coraggio, quella sera mi feci accompagnare da Giorgio. Arrivammo in via Bastioni ed entrammo in un androne buio, salimmo per una ripida scala buia e finalmente bussammo alla porta della redazione del giornale, quel posto per me mitico. Anche la redazione la ricordo buia, con la stanza di Enzo Tartamella illuminata solo da una lampada da scrivania. Di cosa parlammo non saprei riferire, essendo timidissimo e in bambola. Ma a conclusione del colloquio mi disse che avrei potuto cominciare l’indomani, se lo avessi voluto: io volevo solo ascoltare quell’invito.

Cominciò così, quarant’anni fa, il mio rapporto di amore-odio con Enzo. Amore perché mi ha insegnato i rudimenti del mestiere, in un tempo in cui si incontravano il piacere di insegnarlo e la voglia di impararlo. In quella redazione da appena una quindicina di giorni, mi affidò la prima inchiestina, 60 righe (un poema se confrontato ai temini di oggi) sulla notte di San Silvestro dei trapanesi. Pezzo di routine, vediamo come se la cava il ragazzino. Fortuna volle che l’incarico arrivò tre giorni prima della pubblicazione, perché se così non fosse stato avrei miseramente fallito. Non so più quante volte me lo fece riscrivere, quel pezzo: uscivo umiliato dalla sua stanza, fra le mani quelle cartelle zeppe di correzioni e rimandi. “Come vedi, i nodi vengono al pettine”, a frustare l’orgoglio di chi già si sentiva arrivato. Alla fine, il pezzo andò, e il 1980 cominciò per me alla grande.

Odio perché non sono mai riuscito a levarmi di dosso un timore reverenziale nei suoi confronti a volte paralizzante. Sarà stata la barba, o il modo di parlare, o perché tutti i pezzi dovevano prima superare il vaglio del suo controllo.

Negli anni Ottanta quella redazione era un porto di mare, e il giornale un luogo di potere da gestire. Frotte di questuanti, politici noti e meno noti, aspiranti collaboratori i più improbabili. Uno teneva un plaid in auto “perché non si poteva mai sapere”, un altro ciondolava per le stanze aspettando un ordine dal capo, una ragazza molto carina non si capiva cosa venisse a fare, ma quando ritardava eravamo tutti angosciati.

Io, da matricola, ero addetto al governo del telecopier, il papà del fax, attraverso il quale si trasmettevano i pezzi a Palermo. Posizionato alla sinistra di Enzo, funzionava agganciando le cartelle con una specie di leva. Occorreva una manualità che a me mancava, e finivo spesso con lo strappare i fogli. Lui, guardandomi storto, li incollava e tornava a spiegarmi come si faceva. Si trasmetteva a due orari fissi: squillava il telefono ed era l’impiegata della Sip che con voce squillante (e provocante) chiedeva se “volevamo la fissa”. Non riporto i pesanti e irriferibili commenti da caserma che ogni giorno, dico ogni giorno e per due volte al giorno, si levavano in quelle stanze. Lui non si univa a noi, ma sorrideva.

Poi qualcuno portava i cannoli presi alla vicina Rinascente, ed erano i momenti più belli, con Peppe Rizzo e Ninni Ravazza, Nino Donato e Franco Auci, poi Menotti Parrinello, Stefano Giacalone, Gigi Aco. Nel ticchettìo delle macchine per scrivere, si componevano pagine-lenzuolo, e si finiva tardi.

Quando Franco Auci lasciò il giornale, io presi il suo posto per seguire la pallacanestro: nipote di giornalista sportivo, era l’ultima cosa che aspiravo a fare in un quotidiano. Enzo mi lasciò libero di scegliere ma non era d’accordo, tanto che per un po’ continuai a seguire i settori che lui mi aveva assegnato. Pian piano, così, mi staccai dalla redazione, fino ad abbandonarla del tutto dai primi anni Novanta, ormai autonomo col mio prezioso computerino portatile. Ma l’autonomia potei permettermela perché avevo frequentato la sua scuola, e letto ciò che mi consigliava (“ogni settimana L’Espresso, impara a scrivere asciutto come fanno loro”).

Lontani anni luce politicamente, mi sfotteva dicendo che in quella redazione io consideravo tutti servi del potere: avevo vent’anni ed aveva ragione, li consideravo tutti servi del peggior potere democristiano, a partire dall’editore. Avevo ragione o torto? Non lo so, anzi non mi interessa saperlo.

(L’ho visto per l’ultima volta a piazza Vittorio, la sera della chiusura della campagna elettorale di Pietro Savona, quella del ballottaggio uno contro tutti. Ci incontrammo dall’altra parte della piazza, vicino alla fontana, lui con uno stilosissimo panama. Gli chiesi cosa ne pensasse di tutto quel casino. Mi rispose raccontandomi un episodio riguardante l’ex sindaco, quello che aveva rinunciato a quel ballottaggio. Raccontò e non commentò, ma era una sentenza su quel personaggio. Non aggiunse altro, né io altro chiesi. Ci abbracciammo e lo seguì allontanarsi, lentamente, e non so se la fontana sparava i suoi spruzzi, o era rotta come sempre.)

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