Donne e “violenza ostetrica”, la lettera-denuncia di una mamma del Trapanese

Quando la maternità - prima, durante o dopo il parto - può diventare davvero traumatica

La morte di un neonato in un ospedale di Roma, pare soffocato inavvertitamente dalla madre addormentasi per la fatica del parto mentre che lo stava allattando, ha riaperto il dibattito su un fenomeno esteso e poco raccontato, quello della cosiddetta violenza ostetrica, un insieme di comportamenti delle strutture e dei professionisti che si occupano di salute riproduttiva e sessuale delle donne: possono essere anche molto diversi tra loro, come l’eccesso di interventi medici non necessari o senza consenso e la generale mancanza di rispetto per la salute mentale e l’autodeterminazione delle donne.

Dopo il caso di Roma, su cui l’Autorità giudiziaria sta lavorando per far luce sulle responsabilità di quanto accaduto, centinaia e centinaia di testimonianze di violenza verbale e fisica vissuta dalle donne durante e dopo il parto hanno raggiunto le redazioni giornalistiche di tutta Italia e sono state rese note. Anche sui social network moltissime donne hanno raccontato le proprie esperienze di una maternità – che prima, durante e dopo il parto – può diventare davvero traumatica.

Quella che pubblichiamo integralmente è una testimonianza inviata alla redazione di Trapanisi da una donna del nostro territorio e riguarda l’ospedale del capoluogo.
“Circa un anno dopo il mio parto – scrive – trovo la forza e lo spunto per scrivere questa lettera-denuncia per due motivi: per le mie cugine che stanno per partorire nello stesso ospedale: NON DEVE RIPETERSI CIÒ CHE È AVVENUTO A ME UN ANNO FA; per solidarietà alla mamma di Roma: poteva benissimo accadere anche a me, dopo quello che ho subito.

“Ecco i fatti avvenuti all’inizio del 2022: arrivo alle 17 circa al Pronto Soccorso ostetrico dell’ospedale “Sant’Antonio Abate” di Trapani dove mi viene effettuato il tracciato. Intorno alle 18, appena vengo visitata, la dottoressa di turno mi dice che sono a 3 centimetri di dilatazione, che ho frequenti contrazioni e devo essere ricoverata. Lei, però, viene chiamata in sala parto per un cesareo e mi assicura che manderà qualcuno per il ricovero.
Non vedo nessuno fino alle 21 circa: passo così tre ore, da primipara, a gestire il travaglio. Testimonio, da cristiana, che ho gestito respirazione e dolore per l’aiuto ricevuto dall’Alto. Dopo un sollecito di mio marito – che non poteva entrare in quell’area nonostante il tampone Covid negativo con conseguente green pass – arrivano un medico e un’ostetrica che mi rimprovera aspramente sia perché ero rimasta semi distesa sul lettino della visita (dove ero stata lasciata alle 18) sia perché ho uno sguardo sofferto e ‘stavo esagerando’ in quanto, essendo primipara, il parto era molto lontano.

Io riferisco come mi sento e, ancora, vengo presa per esagerata. Il dottore mi visita e si accorge che sono a 10 centimetri di dilatazione: non ha tempo di dirlo che si rompono le acque. Vengo portata di corsa, così come sono vestita, in sala parto. Con doglie ogni 3 minuti circa, tra una spinta e l’altra il ginecologo e altre figure mi fanno le domande per sistemare le carte del ricovero e anche il tampone Covid (tutto normalissimo!!!) ma, non avendo subito l’esito, mi hanno fatto tenere la mascherina FFP2 per tutto il parto. Un parto che doveva essere imminente. Rimaniamo, così, io e l’ostetrica: mi dice che spingo bene ma che il bimbo è alto, perciò devo stare in piedi e spingere più forte che potevo ad ogni contrazione. Ad un certo punto mi chiede di mettermi accovacciata sulle mie ginocchia in corrispondenza delle spinte. Mi sentivo sfinita ma non mi lamentavo e continuavo ad eseguire tutto quello che mi diceva. Dopo un altro po’ le chiedo aiuto, dicendole che non ce la faccio più a stare in piedi, che ho bisogno di distendermi, che sento troppo forte il bruciore quando spingo e che mi sento al limite della sopportazione.
Temendo di lacerarmi, chiedo l’episiotomia ma resto inascoltata, lei mi chiede di continuare a spingere in piedi e mi dice che ce la devo fare perché tutte le mamme ci riescono, fanno più di un figlio, è una cosa naturale.

Alle 23, finalmente, nasce il  mio bambino, dopo quasi due ore di spinte consecutive ogni 3 minuti. Io non ho avuto nessun conforto, neppure quello di una stretta di mano da parte di una cugina di mia mamma che, essendo di turno in un altro reparto, era venuta un attimo durante le spinte ma era stata tenuta a distanza dall’ostetrica che sosteneva che questi gesti non servono e non si usano più. Subito dopo il parto mio bimbo è stato allontanato da me, perché non si sapeva ancora l’esito del tampone, ed io vengo cucita, per 50 minuti, con un pizzico di anestesia solo esterna: mi ero lacerata tutta.

Sfinita, sporca e infreddolita vengo lasciata su una barella tutta nuda dal bacino in giù con una coperta addosso. Mi dicono che devo attendere lì il risultato del tampone. Nel frattempo sento mio figlio piangere disperato nella stanza accanto e chiedo di poterlo attaccare al seno tenendo la mascherina e, soprattutto, di non dargli il biberon perché desideravo allattarlo io. Non mi viene concesso. Distrutta, in preda ad un pianto di sfogo, traballante, aspetto. Ad un certo punto, chiamo a voce alta chiedendo aiuto ma non vedo arrivare nessuno. Tutto in penombra. Così col cellulare chiamo il reparto e l’ostetrica che mi ha seguito nel parto mi rimprovera, dicendomi che bastava chiamare, non era necessario telefonare. Le chiedo aiuto per essere lavata e cambiata perché non ne ho le forze ma mi viene detto che, avendo fatto un parto naturale, devo provvedere io e posso mettermi subito in piedi (oltre al dolore e allo sfinimento, avevo ancora le flebo attaccate). Chiedo un’altra coperta ma mi viene risposto che ‘dovevo ringraziare che ce n’era una a disposizione’. L’ostetrica va via senza aiutarmi.

L’esito del tampone arriva alle 4. Così vengo portata in stanza e, alle 5, vedo finalmente per la prima volta il mio bimbo. Se ce l’ho fatta è stato per una forza che, nonostante i dolori atroci, mi è venuta dall’Alto e, appunto, per la Provvidenza divina che si è concretizzata anche nella presenza di questa cugina di mia mamma che, quella notte, intorno alle 3 è tornata a trovarmi e mi ha portato una coperta dall’altro reparto, mi ha aiutato a lavarmi e cambiarmi. Ringrazio anche un altro giovane OSS che mi ha tenuto compagnia mentre ripuliva la sala parto, dove attendevo l’esito del tampone, con qualche sorriso, mi ha portato il cuscino dalla mia stanza perché sulla barella stavo scomodissima, e mi ha aiutato quando sono andata in stanza.

Nessuna visita è stata possibile, nemmeno quella di mio marito che ha visto il bimbo dopo tre giorni, all’uscita dall’ospedale. Durante la degenza ho dovuto fare quasi tutto da sola: persino pulire il bagno con l’occorrente che mi ero portata da casa perché era sporchissimo.
I controlli successivi hanno confermato una lacerazione del perineo di terzo stadio. Ma la lacerazione più grande, oltre a quella fisica, è stata di tipo psicologico: totale mancanza di umanità e di rispetto.
Tutto ciò è davvero inaccettabile: io sono stata graziata ma sarebbe potuta finire molto peggio, il mio bimbo poteva andare in sofferenza fetale, avere conseguenze e tutto questo nel silenzio di una fredda notte in una sala parto altrettanto buia e manchevole di calore umano. FACCIO MEMORIA AFFINCHÉ NON SI RIPETA TUTTO CIÒ”.

Qui si conclude la testimonianza della nostra lettrice: la nostra redazione è, come sempre, disponibile ad offrire lo stesso spazio ed evidenza eventuali repliche o precisazione da parte di chi abbia titolo per farlo.

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